È (ri)cominciata la guerra indo-pakistana: la sesta dal 1947

È (ri)cominciata la guerra indo-pakistana: la sesta dal 1947

Dopo una settimana di minacce e conti alla rovescia, l’India ha infine lanciato l’Operazione Sindur contro alcune città del Pakistan poco dopo la mezzanotte di oggi, a suo dire per vendicare le vittime dell’attentato di Pahalgam del 26 aprile. Un nome profondamente evocativo della cultura indiana: il sindur è infatti un impasto color vermiglio tipico della ritualità induista con cui si colorano il viso le donne sposate, togliendoselo solo in caso di vedovanza. Un richiamo anche all’attacco stesso del 26 aprile, in cui i terroristi sunniti hanno cercato deliberatamente gli induisti per ucciderli e lasciare così vedove le loro mogli.

Secondo l’India, dunque, l’operazione mira a eliminare i terroristi pakistani sul loro stesso territorio, specialmente a seguito della «ennesima violazione del cessate il fuoco» da parte di Islamabad che ha bombardato Bhimber Gali nel distretto Poonch Rajuri, e secondo la NDTV sarebbero stati uccisi «almeno 70» militanti, con annessa lista e fotografie dei campi d’addestramento colpiti dei terroristi pubblicata in diretta televisiva.

Di tenore decisamente diverso la versione del Pakistan, che ha già abbattuto cinque caccia di costruzione francese, e avrebbe fatto prigionieri alcuni soldati indiani: secondo il suo Ministero della Difesa, gli indiani avrebbero colpito «aree civili e non accampamenti militari», definendo l’azione dell’India «un atto di guerra immotivato e flagrante» e contando 10 morti, tra cui un bambino, e 48 feriti.

Chiuso lo spazio aereo pakistano per 48 ore, gli attacchi missilistici indiani si sono concentrati su Kotli, Muzaffarabad, Rawalakot e Bahwalpur, dove, secondo l’India, è stazionato il comando delle organizzazioni terroristiche responsabili dell’ultimo attentato. Una delle moschee distrutte dall’Operazione Sindur apparterrebbe infatti a Maulana Masood Azar, fondatore dell’organizzazione jihadista Jaish-e-Mohammad (“Esercito di Maometto”), attiva nel Kashmir indiano. Il Pakistan ha, per parte sua, autorizzato l’esercito a rispondere agli attacchi da parte dello Stato rivale.

Iniziano gli schieramenti anche nella comunità internazionale: se Israele e Regno Unito sono dalla parte di Nuova Delhi, soprattutto alla luce del recente accordo sul commercio tra Modi e Starmer, la Turchia ha ribadito il sostegno espresso al Pakistan già agli inizi delle schermaglie. Cercano di mediare, invece, l’Iran e la Russia, che ha offerto esplicitamente i suoi servigi in questo senso a entrambe le parti e si è espressa per una soluzione diplomatica al conflitto sulla base degli accordi di Simla (1972) e Lahore (1999), nonostante le guardie di confine indiane abbiano ricevuto un nuovo lotto di missili antiaerei russi e sistemi di difesa aerea portatili (MANPADS) 9K338 Igla-S appena due giorni fa. Una posizione recepita maggiormente dal Pakistan, che si dice pronto a far terminare subito il conflitto se l’India non dà prova di volontà di ulteriore escalation, ma anche a «misure che rimarranno per sempre nella storia dell’umanità» in caso contrario. Neutrali anche gli Stati Uniti di Trump, che parla di «vergogna» ma non può sicuramente ricorrere al suo mantra del «se fossi stato presidente io anziché Biden tutto questo non sarebbe successo».

Nelle parole del ministro della Difesa pakistano, Khawaja Asif, emerge il parallelismo con le politiche israeliane a Gaza per quanto riguarda le azioni di Modi, legando però le sorti del Pakistan a quelle del mondo intero qualora si verificasse un pericolo esistenziale per il primo. Nel frattempo, tutti i caccia indiani, secondo il ministro degli Esteri, sarebbero stati abbattuti grazie al J-10C cinese: questo ha fatto impennare le quotazioni delle ditte di armamenti di Pechino, parallelamente alla figura da chiodi che stanno facendo i francesi coi loro Rafale. Non un biglietto da visita per la nuova guerra occidentale contro la Cina.

Emerge in tutta la sua chiarezza, quindi, il tentativo di stroncare sul nascere un fronte multipolare comune da parte dell’Occidente, rinfocolando le antiche tensioni indo-pakistane frutto dell’arbitraria divisione dell’ex colonia britannica, che ha portato ai conflitti del 1947, 1965, 1971, 1984 e 1999, su base etnico-religiosa e fomentando suprematismi da ambo le parti. Non è certamente casuale il momento scelto, che vede un contesto in cui l’India si stava riavvicinando alla Cina e rafforzando i suoi rapporti con la Russia, utilizzando un Pakistan storicamente non meno ambiguo dal punto di vista geopolitico ma storicamente filocinese (e con una Cina filopakistana), proprio in chiave anti-indiana. Che sia un messaggio per la Cina affinché prenda una posizione decisa sulla vicenda, anche a suo svantaggio? Probabilmente anche questo conflitto si concluderà con un accordo nei prossimi giorni: troppa è la posta in gioco e pochi gli interessi a dar di piglio alle 130 atomiche presenti in entrambi gli arsenali, soprattutto con una guerra in Ucraina che prosegue e una questione yemenita da sbrogliare sia per Washington che per Tel Aviv, ogni giorno più impantanati in questo Vietnam mediorientale che, al netto della propaganda trumpiana sui “cessate il fuoco”, ha colpito di nuovo la USS Harry Truman. Sicuramente, però, lascerà anche questa nuova guerra indo-pakistana un segno non da poco nella tendenza alla guerra sempre più chiara davanti ai nostri occhi.

Jean Claude Martini

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