Noam Chomsky: non sempre la coerenza la fa da padrona

Noam Chomsky: non sempre la coerenza la fa da padrona

di Antonio Sparano

Qualche settimana fa, precisamente il 18 giugno scorso, è circolata, in alcuni importanti media latinoamericani, la falsa notizia della morte del filosofo, linguista e politologo novantacinquenne Noam Chomsky. La notizia è stata immediatamente smentita dalla moglie dell’intellettuale statunitense Valeria Wasserman, che attraverso la catena televisiva ABC ha chiarito che il coniuge, nonostante il ricovero per un problema cerebrale presso una clinica di San Paolo in Brasile, stava abbastanza bene. Tuttavia, l’eco di questa fake era giunta già in Europa e non sono stati pochi gli utenti dei social che, convinti della sua dipartita, hanno postato elogi funebri all’intellettuale statunitense. Ciò che però mi ha veramente sconcertato è stato constatare che tra i fan di quest’icona vivente del pensiero progre non ci sono solo esponenti o simpatizzanti della sinistra, ma anche una parte consistente di coloro che si auto definiscono “anti-sistema”, ovvero oppositori di quel globalismo di cui Chomsky è una delle voci principali.

   Chomsky è sicuramente una tra le menti più brillanti del post-modernità e il suo contributo alla linguistica è quantomai rilevante, ma il rigore che caratterizza le sue teorie non sempre ha permeato la sua vita: più di una volta la sua condotta ha cozzato con le sue posizioni anticapitaliste, per non dire filo marxiste, e alcune sue passate frequentazioni hanno gettato più di un’ombra sulla sua esistenza.

   Non è necessario andare troppo in là nel tempo e ricordare, ad esempio, quando, negli anni giovanili, questo guru della sinistra radical chic, che oggi afferma di essere un convinto assertore dello smantellamento dello stato di Israele, si professava un sostenitore del sionismo culturale: basterà accennare a qualche episodio più recente della sua longeva esistenza per rendersi conto che Chomsky è tutt’altro che un esempio di coerenza.    Uno dei temi più trattati dal filosofo nei sui testi di politica e nelle sue interviste è sicuramente la lotta di classe: in più di un’occasione egli ha insistito sulla necessità di una distribuzione più equa dei contributi statali ai cittadini statunitensi, affinché ne fossero esclusi i più ricchi. Inoltre, ha più volte criticato l’accumulazione di capitali e la creazione di fondi fiduciari da parte del’1% della popolazione, sostenendo che il codice tributario del suo paese è pieno zeppo di astruse leggi fiscali le quali costringono i più poveri, che per Chomsky costituirebbero l’80% della

società statunitense, a sovvenzionare una minoranza ultra ricca.

    Eppure, sembra che per il filosofo progressista i fondi fiduciari non siano poi così male, dato che, come riportato dal giornalista Peter Schweizer sulla rivista Hoover Digest, già nel2006 aveva investito circa due milioni di dollari in uno di essi. Quell’anno Chomsky partecipò ad un buffet offerto dal prestigioso studio legale Palmer & Dodge di Boston e, in quell’occasione, con l’aiuto di Eric F. Menoya, un avvocato specializzato in diritto tributario, creò un fondo fiduciario per proteggere i propri utili dalle fauci affamate dello zio Sam. Inoltre, come ogni buon socialista radicale, Noam nominò il suo avvocato tributarista e sua figlia Aviva suoi amministratori fiduciari e, in onore dell’altra figlia, chiamò il fondo Diane Chomsky Irrevocable Trust, trasferendovi i diritti d’autore delle sue principali opere, inclusi quelli delle edizioni internazionali.

  Quando Schweizer lo incalzò sull’incongruenza tra le sue posizioni anti capitalistiche e la creazione del succitato fondo fiduciario, la risposta di Chomsky suonò alquanto borghese: «Non vedo perché dovrei scusarmi per risparmiare del denaro per i miei figli e i miei nipoti.» Ovviamente, non vi è motivo alcun per cui il filosofo abbia dovuto discolparsi, ma è quanto meno criticabile, oltre che ipocrita, la sua avversione e condanna verso le altre persone benestanti, e la pretesa che cedano buona parte delle loro ricchezze allo stato, cosa che lo stesso Chomsky non fa, invece di lasciarle ai propri eredi.

  Questo doppio metro di giudizio è ricorrente in Chomsky: il politologo statunitense sostiene da sempre campagne a favore dell’innalzamento della tassazione sui patrimoni, però, come visto, cerca in ogni modo di non pagare un centesimo sul proprio. Come se non bastasse, predica la ridistribuzione massiva della ricchezza altrui, ma non della propria, la quale attualmente si aggira intorno ai cinque milioni e mezzo di dollari, il che lo colloca tra l’1% della popolazione più ricca del paese nordamericano, ovvero tra coloro verso i quali ostenta continuamente disprezzo. In altri termini, Chomsky è un gran capitalista: nonostante la sua retorica contro il profitto, si comporta come un grande impresario, che ha fatto del suo nome un marchio alquanto redditizio.    A tal proposito, il giornalista John Lloyd, in un articolo pubblicato sul settimanale progressista TheNew Statesman, definisce Noam Chomsky un intellettuale oramai propenso alla mercificazione di sé stesso: l’ennesimo

prodotto mediatico del variegato mercato capitalistico che si offre a chiunque, incluso ai suoi nemici.

  Del resto, il linguista e politologo statunitense non è mai stato generoso nel suo lavoro. Nell’ultimo ventennio, infatti, per ciascuna delle centinaia di conferenze tenute nelle varie università del mondo, ha chiesto non meno di dodicimila dollari. Ma il suo tariffario appare poco socialista anche per un altro aspetto: fino alla metà del 2001 per una conferenza incassava all’incirca novemila dollari, quindi, dopo gli attentati dell’11 settembre, in seguito ai quali è cresciuta anche la sua popolarità, ha aumentato il prezzo delle sue performance, adducendo come duplice scusa la disponibilità del pubblico a pagare di più per ascoltarlo e il maggior rischio per la sua incolumità. Inoltre, la sua pagina web offre, a chi se le fosse perse, la possibilità di acquistare, per circa tre dollari, un cd con gli estratti delle sue conferenze più importanti o di guardare, al prezzo di settantanove centesimi, un videoclip nel quale il filosofo tratta, per un minuto, di un argomento scelto dall’utente.

  Il settore più redditizio dei suoi affari resta però quello del libro. Come spiega Dana O’Hare, pubblicista di Pluto Press, editore indipendente che ne ha curato le opere per il mercato britannico: «Basta porre il suo nome sulla copertina di un libro per fa sì che questo vada a ruba». Dunque,il socialista Chomsky sembra dar ragione ai liberali della scuola austriaca, per i quali il valore di un bene è soggettivo, ovvero basato sulla domanda e non sulla quantità di lavoro necessario alla sua produzione, il che suona alquanto sensato, ma certamente poco marxista.

  Del resto, nessuno dei suoi ultimi lavori deve lasciare spazio all’idea di un Chomsky proletario, avvolto da una fumo di tabacco e grondando sudore, mentre scrive un trattato destinato a convertirsi rapidamente in un contributo rilevante per lo scibile umano. Al contrario, nella quasi totalità dei casi si tratta di trascrizioni di interviste televisive, conferenze o di alcune delle sue lezioni. D’altronde, l’ha ammesso lo stesso Chomsky: «Ciò che scrivo oggi, sia esso un articolo per “Z Magazine”, un libro per “South End Press” o altro ancora, è essenzialmente la registrazione di temi affrontati in precedenti conversazioni o conferenze. In altri termini, sono una specie di parassita, ossia vivo dell’attivismo del mio pubblico».   Ad ogni modo, ciò che veramente stride non è tanto il successo riscosso da tali libri, che lo ha reso uno degli autori più tradotti e venduti a livello

mondiale – non si può certo dire, infatti, che a Chomsky manchi il talento -, quanto piuttosto la sua avversione, ostentata soprattutto in quest’ultima fase della sua vita, verso la proprietà privata. A tal proposito, in forum di discussione del Washington Post ha affermato che la concessione del diritto di proprietà al potere e al privilegio pregiudica inevitabilmente la maggioranza della società. In quell’occasione, il filosofo statunitense si è accanito soprattutto contro la “proprietà intellettuale”, criticando le multinazionali del farmaco per arraffarsi miliardi di dollari per sviluppare medicinali che, invece, dovrebbero essere soggetti ad essa. Ovviamente, su questo punto non si può che essere d’accordo con Chomsky: le ricerche e gli studi che hanno portato ad una scoperta si realizzano, infatti, a partire da conoscenze universali per le quali nessuno è stato pagato, quindi, pretendere di monopolizzare quel risultato significa porre un freno alla concorrenza di altri ricercatori che potrebbero replicarlo o migliorarlo, il che va a discapito dell’intera società.

  Il filosofo statunitense considera i diritti derivanti dalla proprietà intellettuale una sorta di protezionismo delle élite, però, di fatto, sembra pensarla diversamente quando si tratta dei propri, dato che si mostra abbastanza egoista quando deve difendere il frutto del suo lavoro. Non è raccomandabile scaricare l’audio di un suo discorso senza pagare l’importo dovuto, avverte la sua casa discografica Alternative Tentacles, e quando si tratta di un suo articolo meglio tenersi alla larga, perché come si legge nella sua pagina web Chomsky.info: il materiale del portale è soggetto ai diritti d’autore del filosofo e dei suoi collaboratori e non può essere stampato o pubblicato in altre pagine web senza autorizzazione scritta e, ovviamente, senza aver pagato la tariffa prevista.

  Così, mentre i suoi fan stimano le sue idee armi contro il capitalismo, Chomsky le vede semplicemente come un’opportunità per ottenere più licenze, più brevetti e più privilegi e fare sempre più soldi. In effetti, in occasione di simposi dal titolo I mezzi di comunicazione e la democrazia reale o Il prezzo dell’informazione nel mercato l’intellettuale socialista è arrivato a chiedere anche trentacinque dollari a domanda… molto orwelliano, non c’è che dire.   Inoltre, sebbene il filosofo progressista abbia attaccato costantemente la libera impresa, soprattutto la grande corporazione nordamericana, quando nel 2006 giunse il momento di pensionarsi dal Massachusetts Institute of

Technology, dove per anni era stato un insigne professore, organizzò un piano di ritiro alquanto suggestivo, investendo nelle grandi compagnie di Wall Street, ovvero in quelle che figurano nello Standard & Poor 500, il più importante indice azionario statunitense, che segue l’andamento delle cinquecento aziende a maggiore capitalizzazione. Quando un intervistatore della Hoover Institution, un think tank conservatore della California, gli chiese chiarimenti a riguardo, Chomsky rispose sardonicamente: «Che vuole che Le dica? Dovrei andarmene a vivere in una caverna in un bosco di montagna?!», ma il suo silenzio di fronte all’obiezione dell’interlocutore, secondo il quale ci si sarebbe aspettati che investisse in aziende ecologiche o comunque impegnate nel sociale, fece intendere che non lo avrebbe fatto perché poco redditizie, con buona pace del progressismo.

   Va anche ricordato che Chomsky fu un fervente sostenitore di Hugo Chávez, tanto che nel 2009 partecipò a Caracas ad un evento organizzato in suo onore dall’allora presidente venezuelano. In quegli anni, infatti, riferendosi al regime bolivariano il filosofo statunitense sosteneva che in Venezuela si stava costruendo un mondo nuovo e più giusto. Chávez, da parte sua, non perdeva occasione per raccomandare la lettura dei suoi libri, perfino durante le riunioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Ma l’idillio tra Chomsky e il regime chavista durò poco. Infatti, quando, nel 2013, il nuovo presidente Nicolás Maduro decise di mantenere basso il prezzo del greggio, ponendo a rischio le strategie speculative delle grandi compagnie petrolifere, e i media nordamericani iniziarono a chiamare lui e il suo predecessore dittatori, anche Chomsky si unì al coro ed ipocritamente iniziò a criticare il regime, dichiarando che il Venezuela era un disastro e che l’eredità politica di Chávez era stata tradita.   Infine, poco più di un anno fa il Wall Street Journal pubblicava un articolo secondo il quale il nome dell’esimio linguista e politologo figurava tra quelli presenti in una delle agende segrete di Jeffrey Epstein, morto in carcere nell’agosto del 2019 in circostanze mai del tutto chiarite. Stando a quanto scritto nel pezzo del quotidiano newyorkese, Chomsky sarebbe stato una delle principali frequentazioni del noto pederasta tra il 2015 e il 2016, insieme al capo della CIA William Burns, all’ex assessore dell’Amministrazione Obama e attuale avvocato generale di Goldman Sachs Kathryn Ruemmler e all’ex primo ministro israeliano Ehud Barak. Quest’ultimo ha dichiarato al Wall Street Journal che partecipava agli

incontri organizzati nell’appartamento di Epstein a Manhattan per poter conoscere personalità di spicco di differenti ambiti della società, come Bill Gates, il cofondatore della Microsoft, Ariane de Rothschild, attuale amministratore delegato de Edmond de Rothschild Group, e, ovviamente, Noam Chomsky. Dunque, nonostante il suo tanto millantato sostegno alla causa palestinese, il filosofo statunitense avrebbe ancora una volta agito incoerentemente, preferendo riunirsi con un assassino sistematico di palestinesi.

   Ma non è tutto. Chomsky avrebbe più volte viaggiato sul “Lolita Express”, l’aereo privato con cui Jeffrey Epstein conduceva i suoi ospiti nelle sue varie proprietà, inclusa l’isola caraibica di Little St. James, nelle quali era solito organizzare orge e incontri sessuali a cui partecipavo anche ragazze minorenni. Stando agli appunti riportati nella sua agenda, nel marzo del 2015 il noto linguista avrebbe volato con Epstein per cenare nella sua residenza di Manhattan insieme al professor dell’Università di Harvard Martin Nowak e due mesi più tardi insieme al cineasta Woody Allen e a sua moglie Soon-Yi Previn.

  Al di là dell’ennesima incongruenza costituita da tali frequentazioni, dato che le sue critiche non si sono mai limitate alla politica e alla finanza, ma interessano anche l’industria cinematografica e dell’intrattenimento che considera complici del potere, ciò che più stupisce è la laconica risposta che il filosofo ha fornito al Wall Street Journal, dopo la richiesta chiarimenti in merito ai suoi rapporti con Jeffrey Epstein, nella quale ha ammesso di conoscerlo e di averlo incontrarlo occasionalmente, e di essere a conoscenza di una sua precedente condannata, che però aveva scontato, quindi, al tempo della loro amicizia era pulito. In altri termini, Chomsky sapeva che nel 2007 Epstein era stato condannato per sfruttamento sessuale di minori da un tribunale della Florida. 

  Ma in fondo: perché stupirsi? Noam Chomsky è solo l’ennesimo intellettuale radical chic elevato al rango di icona del progressismo globale da masse di sinistroidi convinti che sia un paladino della giustizia sociale, quando altri non è che un ipocrita opportunista che per tutta la sua vita ha giocato a fare il “socialista” con il deretano degli altri.

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